venerdì 4 novembre 2016

Step 6: i colori nella scienza



Per trovare collegamenti tra il Bistro e la scienza ritengo opportuno iniziare parlando del rapporto tra la scienza e i colori nella storia.






Introduzione

Ai tempi in cui Newton effettuava i suoi esperimenti con il prisma, il fenomeno dei colori ottenuti attraverso la diffrazione della luce solare era già stato osservato e discusso nell’ambito degli studi di ottica geometrica. Newton ha riproposto l’esperienza descritta da Cartesio nel trattato sulle meteore, partendo però da presupposti molto diversi, che costituiscono l’aspetto fondamentale della
rivoluzione nella teoria dei colori. Nel corso di questo lavoro prenderò in considerazione alcuni aspetti innovativi del paradigma newtoniano, esaminando il caso della teoria dei colori.


Cosa sono i colori?

Alla fine del 1600 la scienza aristotelica era entrata in crisi in vari frangenti: posta di fronte ai problemi sollevati dall’ottica geometrica, ad esempio, il tipo di spiegazioni che i peripatetici proponevano si era rilevato poco esauriente sotto molti aspetti. Il carattere generale e ipotetico delle teorie e la prevalenza di definizioni verbali orientate verso l’aspetto qualitativo dei fenomeni, risultavano incompatibili con una trattazione dei problemi in termini matematici. Una serie di
presupposti di origine aristotelica continuava però a resistere anche fra gli oppositori più agguerriti, che riuscivano a condurre critiche efficaci rispetto a singole questioni ma prive della completezza necessaria per costituire dei modelli esplicativi autonomi e alternativi alla filosofia peripatetica.
La teoria dei colori aristotelica può essere un esempio di questa situazione: l’idea che il colore sia un miscuglio, un composto di luce e ombra, assieme all’idea che il colore sia una modificazione della luce pura, é alla base della maggior parte delle teorie del colore fino a Newton.
Oltre a questa spiegazione, che deriva da Anassimene, Aristotele sostiene che i colori siano la parte superficiale dei corpi visibili, generando così un dualismo tra i colori reali, esibiti dai corpi, e quelli “apparenti”, considerati come “illusioni ottiche”. Il problema della realtà dei colori è stato molto discusso dai sostenitori e dai critici dell’aristotelismo, ma nella successione di teorie diverse sulla
formazione dell’arcobaleno, sulla natura e il numero dei colori fondamentali ecc. non è stata mai abbandonata l’idea aristotelica che i colori siano miscugli o composti di luce e ombra.
I meccanicisti affrontano questo problema sotto un altro punto di vista: seguendo la divisione di Locke, collocano i colori tra le qualità secondarie che la scienza non può trattare direttamente, a causa della loro natura soggettiva, legata alla percezione dei fenomeni fisici. Per loro, infatti, la scienza doveva occuparsi soltanto di cose reali, ossia definibili matematicamente attraverso la misura, per questo motivo non era sensato parlare dei colori come se esistessero indipendentemente dal soggetto. Cartesio, per esempio, riteneva che fosse possibile avere una conoscenza chiara e distinta dei colori considerandoli esclusivamente come nostre sensazioni, poiché quando osserviamo i colori nei corpi non possiamo essere sicuri che siano qualcosa di esistente al di fuori della nostra mente. Se crediamo che i colori si trovino negli oggetti ci sbagliamo, perché non sono altro che sensazioni prodotte dal movimento dei nostri nervi, eccitate a loro volta dai movimenti locali che avvengono fuori da noi, per questo motivo non si possono fare distinzioni riguardo alla fonte delle nostre sensazioni.
L’operazione di Cartesio consiste nel definire la luce in termini meccanici, ipotizzando che sia composta da particelle dotate di un movimento rotatorio che può essere modificato mediante riflessione e rifrazione, in grado di suscitare in noi la sensazione dei colori. I “geometri” non ritenevano di dover indagare il rapporto tra i loro principi e i fenomeni fisici, non cercavano di spiegare la natura fisica dei colori o della luce: di questi argomenti si erano occupati i filosofi della
natura, aristotelici ed epicurei in particolare. Il problema comune delle loro spiegazioni era soprattutto il distacco con la realtà e con le cause degli eventi: i peripatetici, infatti, rinunciavano programmaticamente alla conoscenza del particolare, in favore di un universalismo conoscitivo basato su concetti astratti, come le cause finali, usati per spiegare la realtà nel suo complesso.
Newton comprende che per opporsi efficacemente all’aristotelismo bisogna considerare come fondamentale la base della conoscenza: anche se le opinioni degli aristotelici si rivelassero vere, non sarebbero comunque adeguate al compito della scienza, perché producono spiegazioni senza basarsi sul’osservazione dei fenomeni particolari. Newton non conduce il proprio attacco nei confronti di
Aristotele e dei suoi seguaci confutando le singole opinioni, ma propone una concezione filosofica alternativa, fondata su un’epistemologia basata sui dati sensibili e sul metodo induttivo.
Un altro aspetto da sottolineare è che certe spiegazioni meccaniciste non si potevano considerare poi così diverse da quelle dei peripatetici, poiché descrivevano la realtà fisica che suscitava la percezione dei colori in termini qualitativi: Bacone, per esempio, mette in relazione l’uniformità e la disposizione delle particelle di un corpo con il colore che esibisce.
Per concludere vorrei presentare una breve panoramica sulle teorie del colore che circolavano alla fine del diciassettesimo secolo. Queste teorie sono basate su tre modelli di spiegazione differenti: Keplero, in consonanza con la teoria classica, diceva che i colori erano una mescolanza di luce e ombra, Cartesio ne parlava in termini di vis luminis prodotta dalla rotazione dei globuli aetherei; il modello generale a cui si riferiva Cartesio era la teoria di vortici. Nella sua opera Les météores aveva riesaminato la teoria di Todorico di Freiberg, che aveva intuito che il fenomeno dell’arcobaleno dipendeva dal mutamento di direzione della luce nel passaggio da un mezzo all’altro, ma non era riuscito a dare una spiegazione fisica dei colori. Aveva però formulato una teoria; le particelle luminose spinte verso l’esterno dal centro di un vortice devono ruotare durante il loro spostamento: una rotazione rapida viene percepita come rosso, una moderata come giallo e una lenta come
blu. La formazione dei colori non era altro che un mutamento meccanico nella materia della luce, acquisito nell’urto obliquo sulla superficie di separazione tra due mezzi. 
Hooke, invece, si era concentrato più sulla natura della luce che sulla struttura di mezzi trasparenti; sosteneva che la luce si propagasse con un moto vibratorio, producendo i colori nell’impatto contro i corpi solidi. Era convinto che la luce fosse un moto periodico ed era convinto che Newton non lo fosse, per questo sentì l’esigenza di attaccare la nuova teoria dei colori. Come Cartesio, anche Hooke
pensava che una teoria meccanicista ingegnosa, in grado di spiegare i fatti, dovesse essere vera. Hooke ipotizza che i corpi luminosi eccitino delle vibrazioni che si propagano in linea retta nell’etere: in analogia con le onde sonore, causano la sensazione di luce quando colpiscono l’occhio. La luce è un susseguirsi di impulsi sferici che procedono in linea retta ad intervalli molto piccoli, sotto forma di piani perpendicolari rispetto alla direzione di propagazione: passando da un mezzo all’altro (ad esempio da aria ad acqua) il fascio di impulsi subisce una deviazione che corrisponde alla sensazione del colore. I raggi possono subire deviazioni diverse: Bianco, rosso e blu rappresentano tre stati fisici distinti, ognuno di essi poteva essere trasformato nell’altro invertendo la modificazione subita.

(fonte: http://web.tiscali.it/bahnhof2/uni/newton.pdf)


Nel gennaio 1672 Isaac Newton (1642-1727) inviò una breve lettera a Henry Oldenburg, segretario di un'istituzione scientifica fondata di recente da un gruppo di eminenti scienziati (o « filosofi », come venivano chiamati allora): la Royal Society di Londra. Il giovane fisico, che aveva impressionato tutti con l'invenzione di un ingegnoso nuovo tipo di telescopio a riflessione, era stato accolto fra i membri della società da appena una settimana. Newton vi comunicava a Oldenburg di avere compiuto una « scoperta fìlosofica, che a mio giudizio è la scoperta più strana se non la più considerevole, che sia stata compiuta finora nelle operazioni della natura». Possiamo certamente giustificare Oldenburg se giudicò assurda quest'affermazione, una vanteria arrogante di un giovane di sfrenata ambizione. Newton era in effetti un soggetto difficile: combattivo, ipersensibile e dedito a una segretezza ossessiva. Ma la sua affermazione non era esagerata.

Qualche settimana dopo Newton inviò al membri della Royal Society la descrizione di un esperimento che mostrava a suo dire in modo decisivo che la luce solare, o luce bianca, non era pura come si era creduto in precedenza, bensì composta da un miscuglio di raggi di diversi colori. Newton definì questo esperimento il suo experimentum crucis, o « esperimento cruciale». La sua scomposizione della luce fu a un tempo una pietra miliare nella storia della scienza e una dimostrazione sensazionale del metodo sperimentale. Questo metodo, scrisse uno dei molti biografi di Newton, « fu altrettanto bello nella sua semplicità quanto efficace nel contenere in nuce la teoria di Newton ».


La Teoria dei Colori (in tedesco Zur Farbenlehre) è un saggio scritto da Johann Wolfgang von Goethe nel 1810 e pubblicato a Tubinga. Contrapponendosi alla teoria di Newton, sostiene che non è la luce a scaturire dai colori, bensì il contrario; i colori non sono «primari», ma consistono in un offuscamento della luce, o nell'interazione di questa con l'oscurità.
Si tratta di un testo di importanza significativa perché Goethe, pur essendo conosciuto come uno dei più importanti autori e poeti di tutti i tempi, sosteneva egli stesso di aver dato molta più importanza ai propri lavori scientifici, incentrati specialmente sullo studio delle piante e appunto dei colori, che a tutte le sue creazioni letterarie. Secondo Goethe del resto, «la scienza è uscita dalla poesia», come da lui affermato nella Metamorfosi delle piante. Confidò in proposito al suo amico Johann-Peter Eckermann:
« Io non provo orgoglio per tutto ciò che come poeta ho prodotto. Insieme a me hanno vissuto buoni poeti, altri ancora migliori hanno vissuto prima di me, e ce ne saranno altri dopo. Sono invece orgoglioso del fatto che, nel mio secolo, sono stato l'unico che ha visto chiaro in questa difficile scienza del colore, e sono cosciente di essere superiore a molti saggi. »

..il "Bistro" nell'astronomia

Arrivando al cosmo e all'astronomia, troviamo il Bistro come nome di un asteroide, più precisamente:

2038 Bistro è un asteroide della fascia principale del diametro medio di circa 12,58 km. Scoperto nel 1973, presenta un'orbita caratterizzata da un semiasse maggiore pari a 2,4353100 UA e da un'eccentricità di 0,0895346, inclinata di 14,79384° rispetto all'eclittica.

Asteroide 2038 Bistro

Il nome deriva dal Bistrot, tipico locale con funzioni di ristorante.

Le caratteristiche tecniche di 2038 Bistro, in lingua inglese, sono consultabili qui

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